Questa stampa popolare sulla presa di Porta Tosa mostra bene
l’uso che si può fare delle illustrazioni e dei quadri, anche d’autore (e
talvolta dipinti a memoria), che gli artisti coevi produssero su fatti o su
luoghi che oggi non possiamo più vedere. Le stampe del resto, solo raramente
basate su fotografie, che avevano comunque minore qualità documentaria, furono
un modo frequente di dare informazioni ai lettori dei giornali ottocenteschi e
cedettero il passo molto lentamente. E, se guardate con attenzione, ce le danno
tuttora: anche questa che pure lascia alquanto a desiderare come “impaginazione”.
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Per orientarci diremo che il campo coltivato, al centro dell’immagine,
si trova dove oggi s’innalza Coin; a destra vediamo l’inconfondibile sagoma di
S. Maria della Passione; al centro il campanile di San Pietro in Gessate (che oggi
ha di fronte il Palazzo di Giustizia), dietro al quale troneggia il tiburio del
Duomo: troneggia davvero, può sembrare banale sottolinearlo, ma fino a quell’epoca
doveva praticamente esser visibile da ogni parte della città, sovrastandola:
non si sa se come messaggio o monito, certo come punto di riferimento, utile
ai “forestieri”.
Sulla sinistra vediamo avanzare gli insorti, protetti in
parte dalle barricate mobili che quel giorno ebbero una funzione forse
decisiva. Ma non c’è traccia del Naviglietto di Porta Tosa, che pure non doveva
essere ancora stato coperto e bipartiva il corso, in direzione est: una sorta
di oggetto inafferrabile per chi cerchi informazioni sulle acque milanesi, quasi
un antenato di quel Canale navigabile Milano-Cremona-Po che fu studiato dagli
ingegneri del Genio civile almeno a partire dall’anno 1900, e di cui ci restano
labili tracce nelle carte topografiche cittadine che lo disegnavano assieme al
porto relativo, con tutti i suoi moli, come se fosse già stato aperto.
Se non abbiamo il porto abbiamo però, traccia solo
nominale, la stazione del metrò che lo evoca: “Porto di mare” si chiama, e
moltissimi milanesi (figuriamoci gli stranieri!) se ne chiedono il perché. Ma
di questa farsa parleremo prossimamente, ricordando anche il mitico cronista
duecentesco Bonvesin de la Riva che già allora lamentava il grave, per lui l’unico,
difetto della città: la mancanza di un porto che possa accogliere navi
provenienti dal mare. Una carenza che verrà meno quando i potenti “indirizzeranno
le loro forze a compiere quest’opera con lo stesso impegno con cui ora si
distruggono a vicenda ed estorcono denaro ai concittadini per sostenere le loro
scelleratezze” (De magnalibus Mediolani,
cap. VIII, righe 199-201).
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Torniamo alla stampa, che noi qui abbiamo diviso in due: l’altra metà rappresenta, si direbbe, la fuga degli austriaci, anche se non si capisce bene chi e perché stia dando fuoco alla porta. Un uomo è steso a terra e dalla posizione si direbbe, sinceramente, che dorma, nonostante il casino: nessuno comunque si sta occupando di lui, vivo o morto che sia. Poco chiara è pure la struttura idraulica complessiva, con quel voltone al centro, forse il “tombone” (che significa sottopasso, non laghetto) del Naviglietto citato. All’estremità dell’immagine è invece ben visibile un corso d’acqua di discrete dimensioni: è il Redefoss (questo il suo nome, però chi vuole può chiamarlo Redefosso; mai Redefossi, termine coniato sulla base di una paretimologia che crede di leggervi “re dei fossi”). Questo canale, uno dei tanti della nostra città d’acque, che scorre ancora, seppure in gran parte sepolto, giunge poi alla Porta Romana e lì piega anch’esso verso est: destinazione finale il Lambro, o meglio la Vettabbia, l’altro non secondario, e antichissimo, canale del quadrante di sud-est, che lo riceve prima di buttarsi a sua volta nel fiume. L’immagine del ponte che lo scavalca è una delle pochissime che lo ritraggono, tra foto e pitture, e per questo la segnaliamo, mentre evochiamo i lavori che si compivano nella cascina di cui dicevamo, col Redefoss a muovere la macina e la coltura dei bachi da seta.
Senza dimenticare però l’immagine da cui siamo partiti, testimone
anche dell’altro scempio di grandi dimensioni che ha colpito la città: l’abbattimento
delle sue mura, avvenuto oltre mezzo secolo prima della copertura della Cerchia
interna. Eppure Roma, per dire, vive benissimo con le proprie e non è la sola!
A breve cercheremo di compiere una sorta di collage virtuale
delle vedute che ce ne restano. L’ideale sarebbe una completezza che sappiamo
impossibile, ma tutti sono invitati fin d’ora a segnalarci le tessere del
puzzle che dovessero mancarci.
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