Questa stampa popolare sulla presa di Porta Tosa mostra bene
l’uso che si può fare delle illustrazioni e dei quadri, anche d’autore (e
talvolta dipinti a memoria), che gli artisti coevi produssero su fatti o su
luoghi che oggi non possiamo più vedere. Le stampe del resto, solo raramente
basate su fotografie, che avevano comunque minore qualità documentaria, furono
un modo frequente di dare informazioni ai lettori dei giornali ottocenteschi e
cedettero il passo molto lentamente. E, se guardate con attenzione, ce le danno
tuttora: anche questa che pure lascia alquanto a desiderare come “impaginazione”.
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I vari protagonisti della scena non si trovano là dove ce li
aspetteremmo o stanno facendo cose poco comprensibili, come il carro coperto
che sembra sostare proprio durante uno scontro a fuoco e vicino al quale
vediamo due cavalli precipitarsi dal terrapieno delle mura, di cui uno senza il
cavaliere. Alcuni borghesi sparano da una cascina, mentre un terzo giace al
suolo, non lontano dal quale si nota una macina, quasi a sottolineare la natura
contadina del luogo: ma non si capisce bene cosa ci faccia lì, considerato che
se l’edificio è un mulino essa dovrebbe trovarsi al suo posto, cioè lungo l’acqua,
e che trasportarla non dev’essere stato facile. Il colore rosseggiante dei
piccoli alberi, che sembrano proprio gelsi, è un mistero in più, anche perchè
non siamo in autunno ma nel giorno 22 di marzo, come ci testimonia l’odierno
corso che da qui si diparte.
Per orientarci diremo che il campo coltivato, al centro dell’immagine,
si trova dove oggi s’innalza Coin; a destra vediamo l’inconfondibile sagoma di
S. Maria della Passione; al centro il campanile di San Pietro in Gessate (che oggi
ha di fronte il Palazzo di Giustizia), dietro al quale troneggia il tiburio del
Duomo: troneggia davvero, può sembrare banale sottolinearlo, ma fino a quell’epoca
doveva praticamente esser visibile da ogni parte della città, sovrastandola:
non si sa se come messaggio o monito, certo come punto di riferimento, utile
ai “forestieri”.
Sulla sinistra vediamo avanzare gli insorti, protetti in
parte dalle barricate mobili che quel giorno ebbero una funzione forse
decisiva. Ma non c’è traccia del Naviglietto di Porta Tosa, che pure non doveva
essere ancora stato coperto e bipartiva il corso, in direzione est: una sorta
di oggetto inafferrabile per chi cerchi informazioni sulle acque milanesi, quasi
un antenato di quel Canale navigabile Milano-Cremona-Po che fu studiato dagli
ingegneri del Genio civile almeno a partire dall’anno 1900, e di cui ci restano
labili tracce nelle carte topografiche cittadine che lo disegnavano assieme al
porto relativo, con tutti i suoi moli, come se fosse già stato aperto.
Se non abbiamo il porto abbiamo però, traccia solo
nominale, la stazione del metrò che lo evoca: “Porto di mare” si chiama, e
moltissimi milanesi (figuriamoci gli stranieri!) se ne chiedono il perché. Ma
di questa farsa parleremo prossimamente, ricordando anche il mitico cronista
duecentesco Bonvesin de la Riva che già allora lamentava il grave, per lui l’unico,
difetto della città: la mancanza di un porto che possa accogliere navi
provenienti dal mare. Una carenza che verrà meno quando i potenti “indirizzeranno
le loro forze a compiere quest’opera con lo stesso impegno con cui ora si
distruggono a vicenda ed estorcono denaro ai concittadini per sostenere le loro
scelleratezze” (De magnalibus Mediolani,
cap. VIII, righe 199-201).
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Al momento però i potenti hanno proceduto allo scioglimento
dell’ente preposto a costruirla per progettare una improbabile Cittadella della
giustizia che solo gli speculatori volevano e che infatti è stata cassata ancor
prima di cominciare. Così Milano non ha la “cittadella” e nemmeno la speranza
di una struttura via acqua che abbatta drasticamente l’arrivo delle merci in città sulle ruote di uno sterminato esercito di Tir. Ma non è detta l’ultima
parola e si può ancora sperare, a sette secoli di distanza, che Milano venga
vissuta come bene comune e che la profezia si compia.
Torniamo alla stampa, che noi qui abbiamo diviso in due:
l’altra metà rappresenta, si direbbe, la fuga degli austriaci, anche se non si
capisce bene chi e perché stia dando fuoco alla porta. Un uomo è steso a terra
e dalla posizione si direbbe, sinceramente, che dorma, nonostante il casino:
nessuno comunque si sta occupando di lui, vivo o morto che sia. Poco chiara è pure
la struttura idraulica complessiva, con quel voltone al centro, forse il “tombone”
(che significa sottopasso, non laghetto) del Naviglietto citato. All’estremità
dell’immagine è invece ben visibile un corso d’acqua di discrete dimensioni: è
il Redefoss (questo il suo nome, però chi vuole può chiamarlo Redefosso; mai
Redefossi, termine coniato sulla base di una paretimologia che crede di
leggervi “re dei fossi”). Questo canale, uno dei tanti della nostra città d’acque,
che scorre ancora, seppure in gran parte sepolto, giunge poi alla Porta Romana
e lì piega anch’esso verso est: destinazione finale il Lambro, o meglio la
Vettabbia, l’altro non secondario, e antichissimo, canale del quadrante di
sud-est, che lo riceve prima di buttarsi a sua volta nel fiume. L’immagine
del ponte che lo scavalca è una delle pochissime che lo ritraggono, tra foto e
pitture, e per questo la segnaliamo, mentre evochiamo i lavori che si compivano
nella cascina di cui dicevamo, col Redefoss a muovere la macina e la coltura
dei bachi da seta.
Senza dimenticare però l’immagine da cui siamo partiti, testimone
anche dell’altro scempio di grandi dimensioni che ha colpito la città: l’abbattimento
delle sue mura, avvenuto oltre mezzo secolo prima della copertura della Cerchia
interna. Eppure Roma, per dire, vive benissimo con le proprie e non è la sola!
A breve cercheremo di compiere una sorta di collage virtuale
delle vedute che ce ne restano. L’ideale sarebbe una completezza che sappiamo
impossibile, ma tutti sono invitati fin d’ora a segnalarci le tessere del
puzzle che dovessero mancarci.